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La Calla, recensione di Carolina Borrelli

Quando nel 2010, nel pieno della maturità di un’esperienza artistica trentennale, tra le tele con cui coabita nel suo appartamento di Monza, Luca Melzi inizia la stesura di quelli che ama definire «capricci d’inchiostro», ha già ben chiara la spinta sottesa al suo creare: la necessità di raggiungere l’essenza, intesa come primordiale espressione dell’intimo. L’arte è il recupero di un sentire, sia esso significato per verba o per imagines. La suggestione che anima La calla (petali di parole), seconda raccolta dell’artista monzese, è sussurrata dal cromatismo che è sale di ogni ricordo. La sua poesia intimista, sbocciata in un abbandono ora ascetico, ora mistico, vive di un sensismo volto alla ricerca dell’«eterna bellezza», nascosta tra gli spaccati del quotidiano.

Come per la raccolta precedente, I colori della poesia (2017), pittura e scrittura si compenetrano, manifestando la presenza vicendevole dell’una nell’altra. In un andamento chiaroscurale, tra il trionfo della luce e l’incombere del buio, l’ordinario vive una metamorfosi perpetua che il testimone osserva nel confondersi di dimensione umana e naturale. La personificazione diventa espediente cardine per restituire l’immagine di una realtà vivace e vivificata dall’occhio dell’osservatore. Il poeta, attraverso il predominante andamento monologico, rivendica per sé uno spazio libero di creazione. L’io desidera il rifugio del suo atelier, inebriato dalle sequenze di visioni imbrigliate nell’enunciato nominale, in un reticolo poetico che intreccia inquietudine e quiete.

La dimensione corporale si esprime sottovoce in un universo pervaso dall’atavico segreto del germogliare del fiore, simbolo al contempo di purezza e di precarietà. Al suo mistero, il poeta si abbandona estatico e sofferente, innamorato di quest’immagine di perfezione, e consapevole della sua fatale delicatezza. Alla predominante solitudine consegue la tensione malinconica volta a una figura materna, trasfigurata nella realtà onirica di una poesia dell’ideale, ma al contempo fisicamente pulsante nelle immagini di una natura radiosa e benevola. La calla, luminosa e dalla fondamentale portata simbolica, è portavoce della passione che da sempre accompagna la produzione artistica di Luca Melzi. L’artista intitola l’ultima raccolta al fiore per eccellenza, vergine nel candore del suo ampio petalo, avvolgente e protettivo. Melzi lo riconosce, osservando una fotografia della madre, nel ciuffo di capelli che scende ampio sulla sua fronte.

Se la parola tende a una progressiva essenzialità, assumendo l’immediatezza dell’immagine e liberandosi da un’istintività decadente, l’immagine si contorce, sfogliata in frammenti multiformi, ora tra colori violenti e contorni decisi, in cui si condensano ambiguità e opulenza, assecondando aneliti di disfacimento, ora in sfumature delicate e impressioniste, nell’indefinita dolcezza del ricordo che rievocano. Il percorso poetico di Luca Melzi vive una crescita per la quale la parola dapprima segue l’andamento materico della pittura, nella sua spigolosità irregolare, per poi assumere una posa elativa, portando a compimento l’ardua ricerca dell’essenza, e facendosi latrice di un’istanza salvifica di possibilità.

 

Carolina Borrelli

 


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