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Il cielo riflesso recensione di Stefano del Giudice

La prosa di Fineschi, leggera ed accorta come a simulare un narratore che parla sottovoce, si cimenta questa volta con una magnetica storia medioevale dai contorni oscuri, fra inferno e santità, sospesa fra spigolosita’ gotiche e dotte dissertazioni filosofiche.

La trama scorre fluida al servizio dell’autore e della sua ansia di affrontare ed analizzare il rapporto dell’uomo con la percezione di sé e della propria immagine, ma ben presto l’indagine si spinge oltre, identificando nel contrasto fra normalità e deformita’ un passaggio segreto per interrogarsi sul dissidio fra mondi interiori contesi fra luce e tenebre, peccato e redenzione, stregoneria e santità. 

In questo quadro, la filosofia ed il pensiero cristiano da Agostino a Tommaso costituiscono la fiammella con cui Fineschi guida il lettore lungo lo stretto ed oscuro sentiero costellato di pregiudizi, superstizioni e stregonerie di un Medio Evo dell’anima, scivolando con apparente leggerezza verso una possibile soluzione del mistero che stravolge l’esistenza dei protagonisti.

Che poi tale soluzione ci sia o resti sospesa, per forza di ragione o per opera di fede, non è realmente importante. Quello che conta è l’umano interrogarsi sulle vicende della vita e sui suoi misteri, sulle proprie imperfezioni e sul nostro specchiarci in esse, ma soprattutto su quella linea fra bene e male, fra demonio e santità, che non e’ sempre così nitida ed intelligibile.

Fineschi sotto questo aspetto è abile nel richiamare citazioni e suggestioni, da Umberto Eco a Giovanni Testori, in un gioco intellettuale che è ameno e sereno ma non troppo. C’è infatti , nella sua analisi nel mondo della mostruoso e del distorto, una sorta di controcanto che assume di quando i quando i toni angosciosi della cultura rock piuttosto che quelli luminosi e razionali di Eco o, ancora, quelli intrisi dei cinici simbolismi di Cipri’ e Maresco: è l’ansia del confronto con un mondo moderno in cui la pietas e la capacità di includere il debole ed il deforme in quanto esseri umani (e non prodotti del maligno) si scontra con l’inutile vanagloria eugenetica di un’etica dai valori effimeri e falsati. 

Ed alla fine è proprio questa vena anti-classica ed educatamente iconoclasta, che spinge l’autore a portare alla ribalta la deformita’ come in certi video dei Cure o dei Sex Pistols piuttosto che nelle prediche di Don Gnocchi, a darci la sintesi della poetica di Fineschi, certamente animata da un costante richiamo alla necessità della fede, ma anche dal desiderio di dare voce ad un protagonista che certamente è il fratello deforme di frate Guglielmo di Baskerville, ma ne e ’anche la perfetta antitesi: tanto è granitico ed autorevole l’uno, tanto è fragile e smarrito l’altro, incapace di combattere fino in fondo il rapporto distorto con la  propria fisicità. 

Stefano Del Giudice

 


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