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Quasi una scorciatoia - recensione di Pietro Civitareale

ANDREA GIAMPIETRO, Quasi una scorciatoia. Elegie ed epigrammi, G. Ladolfi Editore, Borgomanero (NO), pp. 118.

Andrea Giampietro ha una personalità multipla, a più facce, aperta ad ogni aspetto della cultura e, in particolare, della letteratura. Critico letterario, traduttore, operatore culturale, ma soprattutto poeta. È nato nel 1985, ma la sua produzione poetica (da Il paradiso è in fondo, 2010, a Di notte a luna spenta, 2012, da Cronache dall’imbuto, 2017, a Quasi una scorciatoia, 2020, di cui ci occupiamo in questa sede), nonostante la sua giovane età, ha già una notevole consistenza e non soltanto da un punto di vista quantitativo ma anche qualitativo, sostanziale, nel senso che già possiede una sua inconfondibile valenza, una sua cifra distintiva, una immediata ed esemplare riconoscibilità, nei termini di uno stilismo in cui si compendiano modalità operative ed atteggiamenti salienti della più pura tradizione letteraria italiana.

Ma anche se, ad un primo sguardo, la sua esperienza poetica sembra rifarsi, da un punto di vista formale, al patrimonio stilistico della classicità con il costante impiego dell’endecasillabo e, non di rado, della rima, il suo atteggiamento intellettuale e psicologico è del tutto allineato con i canoni culturali e ideologici dell’attualità, come attuale è la sua visione della realtà del nostro tempo. Si ha l’impressione, anzi, che il ricorso a tali moduli ritmici e fonologici (estranei in genere all’esperienza poetica contemporanea) abbia lo scopo di assecondare una innata predisposizione critica nei confronti di tale realtà col ricorso ad uno stilismo espressivo ironico e, sotto certi aspetti, epigrammatico, che cioè, attraverso tali moduli, voglia, in qualche misura, mascherare una istintiva e profonda affettività alla vita nei suoi molteplici aspetti, ma soprattutto riscattare e, in un certo senso, sublimare una condizione di disagio personale sia in riferimento ad una situazione di quotidiana pertinenza ed evenienza che ad una condizione psicologica e sentimentale ontologicamente presente nell’avventura esistenziale dell’uomo: «Sudando asciugo i vetri ed i calori / di quanto terso ancora non risplende; / dalla finestra accampo dentro e fuori / concerti di mosconi a fior di tende. / Sarà l’estate od il presagio tardo / di primavere od un anticipato / scompiglio dell’inverno od il riguardo / dell’autunno che stagna senza fiato. / Sicuramente un rostro di cicale / approda ai nervi e suscita l’indizio / d’un afono solfeggio che ci assale / nel guaio di stagioni, ed è l’inizio...».

Ciò rivela che, nella sua esperienza poetica, la cultura non è un sistema modellizzante secondario, ma primario; un sistema che svolge una funzione decisiva nella rappresentazione del mondo umano come totalità, cioè con le sue debolezze, le sue affezioni, la sue ambiguità, i suoi slanci, le sue cadute, i suoi ritorni, le sue predilezioni, ecc.; un sistema non basato esclusivamente su una lingua naturale, ma su una lingua, in un certo senso, coltivata ed universale, alla cui formazione non è verosimilmente estranea la sua esperienza di traduttore: dal francese (Verlaine, Rimbaud, Mallarmé) e dall’inglese, con particolare riferimento, in quest’ultimo caso, ad Oscar Wilde, di cui ha tradotto, nel 2012, La ballata del carcere di Reading.

Autore prolifico, del quale l’età asseconda la creatività testuale quasi con quotidiana cadenza, la sua poesia è rivolta verso un ampio orizzonte d’interessi e capacità interpretative di cui recupera, proprio quando certe forme della poesia del secondo Novecento possono essere considerate definitivamente in crisi, un descrittivismo non più legato ad ambigui simbolismi, a vuote o enigmatiche commistioni verbali o a giochi destrutturanti del linguaggio; la sua stessa vocazione alle forme metriche ci consegna l’esempio di un verso fondato su una costanza di accenti evocativi singolari, su accostamenti verbali antagonistici, ma sempre riconducibili ad una intenzione di accentuazione lirica, ad una concezione metaforica della parola e ad una schietta incisività comunicativa.

In altre parole, la sua non è una presa di distanza dall’effettivo svolgimento delle vicende letterarie del nostro tempo, ma un modo tutto personale di “raccontare” e “raccontarsi”, un punto fermo, un luogo dove consistere, nei termini di una singolarità di discorso, d’una essenzialità conquistata di immagini, in cui la concretezza della dizione (sia che abbia una coloritura elegiaca che epigrammatica) acquista una suggestiva valenza allusiva. A ciò si aggiunga che la singolarità e la riconoscibilità del suo dettato è confermato anche da precise scelte lessicali le quali, se da una parte ne assecondano, di necessità, gli aspetti fonologici e ritmici, dall’altra sono la spia di una cultura apparentemente aulica ma sostanzialmente aderente ad un modo di essere e di concepire la propria avventura esistenziale e letteraria.

Pietro Civitareale

 (“L’Immaginazione”, n. 321, gennaio-febbraio 2021)

 


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