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Questa raccolta di poesie tenta di decifrare il travaglio della contemporaneità mediante la specola della parola, smarrita in un divorzio con la realtà, iniziato alla fine dell’Ottocento e sofferto nel Novecento nelle conseguenze provocate dalle ideologie, che, impossessandosene, hanno trasferito il baratro dal settore artistico a quello politico.
La prima parte è dedicata alla fine della società contadina: l’io narrante avverte la difficoltà di lasciare il mondo degli avi, testimoniato dalle figure dei genitori e dei fratelli, per superare il torrente, la barriera del paese-universo. La città, l’ambiente in cui vive l’interlocutore, si trova già immersa nella fase successiva con i nuovi valori: le lotte politiche, i viaggi, la carriera, la tecnologia.
Nella seconda parte l’autore non certifica più l’assenza, ma la presenza. Ha superato il torrente e vuole esplorare la città. Il dialogo con l’interlocutore diventa più serrato ed entra un terzo personaggio, un figlio di vent’anni, colui che vive la realtà della società postmoderna, la società globalizzata. Non c’è possibilità di intesa con il padre: sembrano vivere ere diverse dell’evoluzione.
Per il giovane la società “emporiocentrica” è la normalità con tutte le sue contraddizioni e il malessere prodotto dal consumismo, inteso non superficialmente come acquisto di prodotti inutili o griffati o come bramosia del superfluo; “consumismo” significa porre il “mercato” al centro del sistema delle relazioni umane, dei rapporti personali, pubblici, sociali, politici nazionali e internazionali, compresi anche i modelli culturali (teoretici, filosofici, etici ed estetici), oltre quelli pratici e pragmatici.
Da Attestato 1
IV
“Arte” in dialetto non esiste.
Qui parlo di minestra e di lavoro,
di annodare il pranzo con la cena,
di arredare il salotto con decoro.
Le giovani ricamano il corredo,
mia madre crea pizzi all’uncinetto.
Questo è poesia.
«Allarghi la tua casa, ma per chi?».
Devo lasciare
la stanza senza arredi
o prepararla
per l’ospite del giorno?
Non mi rispondi.
Sei venuto soltanto ad umiliarmi:
non c’erano le sedie;
avrei voluto aprirtela ugualmente.
M’hai incontrato nell’autorimessa,
stavo spedendo pacchi ed ho taciuto;
non hai neppur guardato la rivista.
E suona la campana della scuola;
sulla carta rimangono incompiuti
versi che traccerò al primo semaforo.
Ma che cosa è l’arte nelle stanze vuote?
Squilla il telefono,
ti si spalanca il mondo:
non so più in quale
capo del filo vivo,
se la parola è stata confinata
dentro ad un file ormai eliminato.
Da Attestato 2
XVI
«Su quale pianta sboccia
la mente di tuo figlio?».
«La roccia sente il caldo della luce,
lo sguardo suo produce un vasto incendio.
Avevo visto la resurrezione
della Parola nella mia rivista,
come pure il miracolo di Silvia.
Lui dice: “Nulla
avviene senza una ragione”».
«Tra te e lui vedo una falla»
«Trenta secoli sono un burrone,
ma uno stesso colore veste l’anima,
germogliato sul campo del dolore.
Telefona mio figlio:
“Dammi la speranza…”.
Nessun bisbiglio lungo il filo.
Freme senza baldanza, ma nessuno
può far crescere il seme nel terreno.
Invoca: “Padre mio, ché non mi aiuti?”.
E chino sopra il tavolo in cucina
lui s’incatena alla bottiglia vuota,
ai sogni non mietuti
lungo il silenzio di una casa
senza famiglia.
Ripete: “Padre… padre,
mi hai dato la vita, dammi la speranza!”.
Nella sua sete senti somiglianza?».
«Dentro gli occhi rapiti di ragazze
sfilava nel palazzo a Pitti Moda;
discuteva in Senato di poesia;
per brio, prestanza, intelligenza
si distingue: lui parla cinque lingue…
È l’idolo dei giovani!».
Aspira il nada*,
lo sente circolare ovunque vada,
lo sente nell’intrigo della prova,
anzi “Fa figo essere antieroi
e maschere al computer”.
Si sgretola la vita nelle tasche».
«Tuo figlio… sa soffrire,
ha imparato a scorgere la luce…
E i miei? già orfani bambini…
con firma sui vestiti, conti in banca:
il preludio di un titolo di studio
senza sforzo, la macchina, il telefono,
vacanze e libertà di sesso.
L’abbandono è il più piccolo dei mali?
E poi l’ingresso nella vita adulta…
quale tonfo cadere tra i mortali!».
«Il vuoto nelle stanze,
lo sguardo oltre la finestra
non sequestrato
dai volti delle donne sullo schermo…
poi si ferma, telefona,
dopo strazianti istanti muti
invoca: “Padre mio, ché non mi aiuti?”».
* Il nada, il nulla di Hemingway.
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GIULIANO LADOLFI EDITORE s.r.l.
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