di Antonio Devicienti
Non si legga L’impero che si tace (Borgomanero, Giuliano Ladolfi Editore, 2019) come un libro di poesia o, peggio ancora, di prose poetiche.
Lo si legga, invece, come una rincorsa del respiro e con una rincorsa del respiro, con la certezza che il linguaggio è capace d’inventare mondi e che la bruttezza violenta del cosiddetto reale s’inceppa ed è in affanno e si rivela ancora più (pericolosamente) stupida e ingiusta se si frange contro un libro come questo.
Lo si percorra camminando sulle mani e con i piedi che hanno il cielo come abisso (ricordate Paul Celan e il discorso di Darmstadt?), entrandovi come in un gazebo oblungo (ricordate l’invito che Antonio Leonardo Verri rivolgeva ai poeti?), sentendo nella carne l’esilio e i suoi privilegi.
Lo si tocchi nei suoi numerosissimi nervi scoperti che vibrano nella cassa di risonanza della lingua e dei viaggi, delle letture e dell’epoca (la presente, anch’essa cane-lupo), nella sua lunga (lunghissima), dolorosa (dolorosissima) gestazione, nel suo tendersi dal verso all’oltreverso, perché qui il verso si dilata e dura pagine intere, respiro e ansia di dire, versione d’Ilaria e inversione continua del pensiero-scrittura.