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Riflessioni sulla teoria dell’argomentazione e la logica
Stefano Cazzato,
La quasi logica. Pratiche del consenso e del dissenso, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero (NO) 2020.

Nicola Cotrone

Il libro di Stefano Cazzato, nello svolgere un interessante e preciso percorso storico- filosofico sulla teoria argomentativa e logica vuole mettere in risalto, anche con casi empirici, quanto oggi sia necessario e urgente, anche in ambito politico, ritornare a riflettere e ripensare le regole che fondano la logica, la retorica, il ragionamento.

L’arte dialettica (dal gr. dialektikòs, der. di dialègomai “conversare” e, con un significato più ampio, abilità e tecnica oratoria finalizzata a persuadere un interlocutore) insieme alla «scienza - di cui era la parente debole - e con la retorica - di cui era la parente forte -» (pp. 57-58) è stata, secondo gli antichi filosofi greci, all’origine del pensiero occidentale perché è alla base del corretto ragionamento sia da un punto di vista morale, sia da un punto di vista sintattico-grammaticale.

La storia delle idee da Platone a Wittgenstein, passando per Austin, Perelman, Toulmin, Heidegger, Gadamer, è caratterizzata da una continua evoluzione e “trasformazione semantica dei concetti” che spesso è legata a filo doppio con l’orizzonte storico, la società, i valori che in quel momento sono condivisi - o non condivisi - le tradizioni, il tipo di potere politico, le maggioranze o le minoranze. Le interdipendenze tra tutte queste variabili contribuiscono, ci spiega l’autore, a trasformare continuamente i significati dei termini che sono alla base delle idee e che, in apparenza universali e immutabili sono, invece, in lento cambiamento.


Giancarlo Lombardi

Pape Satàn: la soluzione di un mistero durato 700 anni

Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem.

Aan al mijn vlaamse vrienden

  1. Introduzione

Facciamo parlare il sommo Poeta (Inf., VI, 112-115 e VII, 1-15):

Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.

"Pape Satàn, pape Satàn, aleppe!",
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: "Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia".
Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
e disse: "Taci, maladetto lupo!
Consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
fe’ la vendetta del superbo strupo."
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.”

Per il famoso verso "Pape Satàn, pape Satàn, aleppe!" sono state proposte molte interpretazioni linguistiche partendo dall’ebraico, passando per il greco e l’arabo e arrivando al francese, all’ungherese e ad altre lingue. Ci si limita qui a citare il conciso ma completo e recente commento di G. Inglese [1], che riporta “Pape” come grecismo latino da “papae”, interiezione di meraviglia, e “aleppe” da “alef”, prima lettera dell’alfabeto ebraico, nel senso di interiezione di dolore, seguendo Arrigo da Settimello: “Quomodo sola sedet probitas! Flet et ingemit: Aleph!”. Il nuovissimo Dizionario della Divina Commedia [2], dato alle stampe per il DCC della morte del Poeta, non si discosta da questa interpretazione, che giustamente Inglese utilizza per indicare che l’oscuro verso è un’invocazione di un intervento di Satana per impedire il passaggio dei due Poeti. Tuttavia, rimane l’evidente forzatura di invocare l’intervento con un’espressione senza un vero senso compiuto tra la meraviglia e il dolore.

Occorre tuttavia ancora una volta esaminare cosa accade sulla scena. Sul finire del sesto canto i Poeti scendono per un sentiero che curva aggirando un costone (perché arrivano al punto “dove si digrada”). Con grande gioco teatrale Dante termina il canto con una bella “suspense” degna di Alfred Hitchcock: appare improvvisamente Pluto, “il gran nemico”. Il settimo si apre a sorpresa con la misteriosa invocazione subito diretta dal demonio, in faccia tanto al lettore, quanto ai due viaggiatori, con l’effetto onomatopeico della “voce chioccia”, che richiama sorpresa preoccupata. Lo stupore della reciproca apparizione è manifesto e l’espressione del verso denota chiaramente ansia e spavento. I due Poeti si mettono al centro della scena: Virgilio invita Dante a non avere paura e urla al “pallone gonfiato” di Pluto (la “‘nfiata labbia”) di lasciarli in pace, perché è da Dio che loro sono lì e Satana nulla può per fermarli. Immediatamente con grande effetto finale, Pluto “si sgonfia” muto e cade a terra con un tonfo sordo, come evocato dall’immagine della vela sbattuta dal vento.

Da molti secoli, a cominciare dai figli stessi di Dante, che si impegnarono a commentare l’opera del padre, è sorta la domanda su cosa voglia veramente dire “Pape Satàn, pape Satàn, aleppe!” in un contesto così palesemente teatrale, ma al tempo stesso pieno di richiami a emozioni e situazioni così familiari. Non bisogna dimenticare che il Poeta concepì la sua opera in lingua volgare per un’accessibilità a un pubblico più vasto di quello tipicamente aulico e che aveva ben presenti situazioni, luoghi e persone vicini all’epoca in cui essa fu scritta.

 


ANDREA GIAMPIETRO, Quasi una scorciatoia. Elegie ed epigrammi, G. Ladolfi Editore, Borgomanero (NO), pp. 118.

Andrea Giampietro ha una personalità multipla, a più facce, aperta ad ogni aspetto della cultura e, in particolare, della letteratura. Critico letterario, traduttore, operatore culturale, ma soprattutto poeta. È nato nel 1985, ma la sua produzione poetica (da Il paradiso è in fondo, 2010, a Di notte a luna spenta, 2012, da Cronache dall’imbuto, 2017, a Quasi una scorciatoia, 2020, di cui ci occupiamo in questa sede), nonostante la sua giovane età, ha già una notevole consistenza e non soltanto da un punto di vista quantitativo ma anche qualitativo, sostanziale, nel senso che già possiede una sua inconfondibile valenza, una sua cifra distintiva, una immediata ed esemplare riconoscibilità, nei termini di uno stilismo in cui si compendiano modalità operative ed atteggiamenti salienti della più pura tradizione letteraria italiana.

Ma anche se, ad un primo sguardo, la sua esperienza poetica sembra rifarsi, da un punto di vista formale, al patrimonio stilistico della classicità con il costante impiego dell’endecasillabo e, non di rado, della rima, il suo atteggiamento intellettuale e psicologico è del tutto allineato con i canoni culturali e ideologici dell’attualità, come attuale è la sua visione della realtà del nostro tempo. Si ha l’impressione, anzi, che il ricorso a tali moduli ritmici e fonologici (estranei in genere all’esperienza poetica contemporanea) abbia lo scopo di assecondare una innata predisposizione critica nei confronti di tale realtà col ricorso ad uno stilismo espressivo ironico e, sotto certi aspetti, epigrammatico, che cioè, attraverso tali moduli, voglia, in qualche misura, mascherare una istintiva e profonda affettività alla vita nei suoi molteplici aspetti, ma soprattutto riscattare e, in un certo senso, sublimare una condizione di disagio personale sia in riferimento ad una situazione di quotidiana pertinenza ed evenienza che ad una condizione psicologica e sentimentale ontologicamente presente nell’avventura esistenziale dell’uomo: «Sudando asciugo i vetri ed i calori / di quanto terso ancora non risplende; / dalla finestra accampo dentro e fuori / concerti di mosconi a fior di tende. / Sarà l’estate od il presagio tardo / di primavere od un anticipato / scompiglio dell’inverno od il riguardo / dell’autunno che stagna senza fiato. / Sicuramente un rostro di cicale / approda ai nervi e suscita l’indizio / d’un afono solfeggio che ci assale / nel guaio di stagioni, ed è l’inizio...».


LA VERITA’ DENTRO UNA PAROLA

Ho letto e riletto nei giorni scorsi il nuovo libro di Marco Giovanni Maggi, l’imprenditore castelnovese, che ha ormai all’attivo 3 libri di poesia, con diversi riconoscimenti in importanti Premi nazionali (e l’essere “imprenditore” e “poeta” arricchisce entrambi i versanti: dal momento che spesso gli operatori economici sono privi della necessaria sensibilità, cultura e fantasia; mentre i secondi, talvolta, mancano di una salutare pragmaticità e socialità). Si tratta di un originale “poemetto” diviso in tre sezioni, che racconta sul filo dell’emozione e dei sentimenti dell’Autore – in molti versi trattenuti con molta riservatezza, in altri liberati con forte se non tagliente espressività - i tempi e le circostanze del nostro inquieto vivere. Dirò subito che non deve ingannare il sottile spessore del libro: il testo puro (al di là della prefazione di Ivan Fedeli, della introduzione e nota biografica) è contenuto in poco più di venti pagine; tuttavia sono così dense e straordinariamente ricche che devono essere affrontate come un romanzo di almeno centocinquanta pagine (come? Semplicemente rileggendole almeno dalle tre alle cinque volte, per riuscire a coglierne appieno il significato ed il valore). Ogni parola è studiata per corrispondere alle intime ragioni interiori del poeta, per cui ha un enorme peso specifico. A questo riguardo, allora, come non citare la felice intuizione dello scrittore castelnovese Pier Angelo Soldini, il quale scrisse: “La verità arriva più facilmente da una parola che non dà un discorso” (in “La forma della foglia”). E richiede di essere pazientemente ascoltata.


Il saggio di Stefano Cazzato “La Quasi Logica – pratiche del consenso e del dissenso” (Giuliano Ladolfi Editore) ha il merito, non di poco conto, di portare in evidenza preziose riflessioni sull’utilità del discorso argomentativo ovvero sulla retorica, ponendo all’attenzione generale ciò che oggi potrebbe sembrare antico o peggio vetusto ma che in realtà è di stringente attualità.

È opportuno sorvolare sul retaggio demolitorio della retorica ad opera soprattutto di Platone, il quale la definì quale arte dell’occultamento e del travisamento della verità, con l’unico fine di ingannare gli interlocutori conducendoli a prendere una decisione che, senza la “manipolazione retorica”, non avrebbero mai preso.

Certo la retorica può presupporre un inganno, tuttavia l’eventuale uso “manipolatorio” della parola non può, nell’ambito di una dinamica dialogica democratica, escludere il valore in sé della parola, in special modo nell’ambito di un regime democratico ove le idee scritte e verbalmente espresse costituiscono il fondamento del confronto.

L’utilità della retorica è l’elemento imprescindibile per una teoria democratica quale paradigma deliberativo del discorso politico, salvo che si intenda la democrazia come l’arte di selezionare i ceti dirigenti tramite la mediazione tra interessi inconciliabili, pertanto ripensare il ruolo della retorica funzionale al discorso politico arricchisce il significato stesso di deliberazione.


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